Spieghiamo subito il significato del titolo, completandolo. Le case (le abitazioni) sono costruite con materiale edilizio (questo è il significato del "sassu" che vuol dire, sasso)…. "e gan tuci ul so fracassu" (e hanno tutte il loro fracasso). Chiaro che il "fracasso" si riferisce alle discussioni che avvengono in ogni abitazione.
La normalità delle discussioni, dovrebbe essere relativa al dialogo, fra i vari componenti della casa. Si può discutere su ogni argomento. Anche se, talvolta, la discussione si accendeva e magari non è sempre incanalata nei canoni del dialogo. Giusepèn precisa subito che "na oelta, ul po’ al cumandèa e tuci duean ubidì" (un tempo, il padre ordinava e tutti i componenti della famiglia, dovevano stare ai suoi ordini, ubbidire). Diciamo che il contraddittorio non era molto concepito, ma era lecito dire la propria ragione, possibilmente senza contraddire il capo famiglia.
Anche qui, Giusepèn fa delle precisazioni: "a masèa la cugnussea i rasòn dàa cà e cunt'ul so om …i discutèan" (la massaia, la moglie, conosceva l'andamento della casa e, con suo marito, discutevano). "Sa sa ben mi van a finì certi rasòn ….l'ea a dona da cò … ca la metea un becu e la cumandea le" (si sa bene come vanno a finire certe ragioni …. era la donna di casa … che ci metteva il suo parere e si faceva come diceva lei". Giusepèn era "scrocu" (furbo) e, da uomo di mondo, conosceva l'epilogo di ogni questione. La "cosa furba" era questa: "i dòn ta fan mustra ca ti ghe rasòn ti, ma dopo ca te scultò chel ca la voi le" (le donne fanno finta di farti credere di avere ragione tu …. dopo però avere ascoltato la loro versione che quasi sempre (a volte senza il "quasi") è la loro linea da tenere).
Giusepèn vuole anche precisare che "ai me tempi" (ai miei tempi - è una frase che Giusepèn ripete spesso) esisteva la cosiddetta "famiglia patriarcale", ma ad analizzare bene la "verità" bisognerebbe dire che la famiglia era "matriarcale", per un fatto semplice: la maggioranza degli uomini era al lavoro, mentre la maggioranza delle donne era a casa, ad accudire (in tutto e per tutto, la famiglia)…. mestieri in casa, compreso il bucato e la pulizia, il rammendo e la gestione della "paga" che portava a casa il papà: quindi la donna, allora (tra l'altro considerata l'Angelo della casa) aveva una responsabilità enorme. Soprattutto coi figli che andavano accuditi, redarguiti e educati.
E, a proposito di educazione, c'erano certi principi da rispettare e quando si derogava erano "pianti e stridore di denti" (Dante) - c'era poi un vezzo (chiamiamolo così) che la "massèa" adottava un detto che suonava un po' a minaccia, ma che aveva il suo peso. Quando il bimbo-mariuolo commetteva una "scappatella" gli si diceva "stasia gal disu al to po'’" (stasera lo riferisco a tuo padre) e molte volte, la "minaccia" aveva il suo effetto. Con me (ma penso che era così anche nelle altre case), succedeva che la mamma "si dimenticava" dal riferire a papà e, le poche volte che "si ricordava", mio padre mi prendeva in braccio, mi guardava cogli occhi buoni e con una semplice "strofinata" sui miei riccioli, diceva "mo fa'l brau neh" (adesso fai il bravo, va bene?) e tutto era pronto per la …. prossima …. strofinata sui riccioli.
Per completezza di informazione, aggiungo che (me l'hanno riferito e me l'ha confermata Giusepèn) fra moglie e marito ci si dava del "vu" (voi). I figli, rivolgendo la parola al padre, dovevano attenersi al "VOI" con il rispetto dovuto all'autorità paterna senza eccepire scuse o dimenticanze.
Ritornando al "fracassu" diciamo che abbiamo lasciato perdere il "ben da fradèi, ben da curtèi" (bene di fratelli, beni di coltelli) nel senso che non tutto filava liscio. Quindi, il "fracassu" causava liti, spesso "accese" che il papà, ma soprattutto la mamma, doveva dirimere.