Ieri... oggi, è già domani | 01 dicembre 2022, 06:00

"ne buntò… ne caitò" - ne bontà… ne carità

Mi intrigano molto, due detti antichi che mi suggerisce Giusepèn...

"ne buntò… ne caitò"  - ne bontà… ne carità

Mi intrigano molto, due detti antichi che mi suggerisce Giusepèn. Uno è indicato nel titolo. L'altro è "s'à podi non, toeti, ne 'npatoti" (non si può convincerti e nemmeno ragionarci sopra). Vediamo di analizzare per bene entrambi i concetti. "Ne bontà e nemmeno carità" somiglia più a una degustazione di un "piatto" che dovrebbe essere prelibato. Ma non lo è e quel "piatto" non presenta le caratteristiche ideali. Sulla "carità" si può dire che si riferisce all'accondiscendenza. Come a dire "non è proprio una bontà, ma lo si può lo stesso mangiare".

Non è finita lì, la spiegazione. I nostri "antichi" mettevano negli esempi semplici, anche i valori morali. E costituivano un prezioso insegnamento che doveva (dovrebbe) far meditare. Quando si ascoltavano certe cialtronerie o semplicemente ragionamenti senza senso, piuttosto di offendere con un laconico "scemu" o "imbesuì" (scemo - imbecillito) si preferiva dire che quel ragionamento non aveva "logica" e nemmeno ubbidiva a un senso logico. Era insensato, banale, privo di costrutto, da ignoranti e sono coloro che... ignorano, non conoscono, non sanno e fanno finta di sapere.

E si aggiungeva pure quel "caitò" (carità) come a dire... va beh, ti scuso, ma non ripetere un'altra volta simili minchiate (l'ho presa dal siculo, da noi si usa …. cazzate). Fatemi dire che leggendo qua e là, trovo anch'io "ne buntò e ne caitò", ma non posso certo offendere chi le ha scritte. C'è poi qualcuno che anche con me, usa lo stesso giudizio. Del resto, nessuno è depositario della verità e si fa presto ad "accusare" gli altri di tergiversare sul discorso.

Passiamo alla seconda frase. Bellissimo quel "s'a podi non, toeti, ne 'npatati". Qui si tratta di un dialogo acceso, dove le parti, a ogni costo, vogliono avere entrambi ragione - ma pure di una "ramanzina" finita male, dove chi ha tutte le carte in regola per avere ragione, sbotta in una "lussuriosa" sentenza che dice chiaro e tondo "insomma, cosa devo fare per convincerti?" quasi non si avverte la "speranza" per potere arrivare a una soluzione. C'è una "coda" al detto qui sopra ed è un tantino "succulento" per dire che contiene un po' di... peperoncino. Dice: "a s'a fa prima a metatàl in dul cu che a metatàl, in dul co" e qui, l'allusione è intuibile, ma vediamo di non utilizzare la frase unicamente in maniera negativa. Si sa bene cosa "mettere", ma utilizziamo il concetto, cambiando il termine. Quindi, "si fa prima a mettere via quanto ci stiamo dicendo e vale la pena a fartelo entrare in testa".

Subentra Giusepèn che se la ride per questa "versione" non proprio cervellotica, ma la gradisce e se la spassa con una fragorosa risata, compiacente che fa brillare di gioia i suoi "occhietti furbi". Ne approfitto per dire che Giusepèn non ama il turpiloquio e nemmeno le parolacce. Tuttavia, quando si tratta di chiarezza (come dicono i "patologici" - persone strane per situazioni strane e anormali), quando ci vuole... ci vuole. Non si offende il pudore e si fa chiarezza... Nocino docet!

Gianluigi Marcora

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